Le donne che resistono per il futuro della Palestina

Cosa resterà di Gaza dopo questi mesi di morte e devastazione? Quali prospettive di pace e convivenza per i due popoli? Ripartiamo dalle storie delle donne che continuano a resistere e hanno hanno il coraggio di battersi contro la violenza di Israele e l’oppressione di Hamas.

Giuliana Sgrena

Netanyahu potrà radere al suolo tutta la striscia di Gaza ma non avrà eliminato Hamas, perché un’ideologia non si sconfigge con le armi. L’hanno capito persino le Forze armate israeliane il cui portavoce ha dichiarato: “il gruppo militante di Gaza rappresenta una ‘ideologia’ che non può essere eliminata. Ma il governo di Tel Aviv continua a ignorarlo.
Gaza da prigione a cielo aperto potrà diventare un enorme campo profughi. C’è anche chi sopravvive a un genocidio, al tentativo di annientare la dignità di un popolo, ma sarà una società a brandelli. Le ferite non sono solo fisiche ma anche psicologiche. Che futuro potrà avere una popolazione privata di cibo, cure, scuole…
Ogni giorno le immagini di uomini, donne, bambini che si spostano da un lato all’altro di quella striscia di terra ridotta in cumuli di macerie, sono sempre meno (viste le decine di migliaia di morti) i loro averi sono sempre più miseri, come può la comunità internazionale non assumersi la responsabilità per tutto quello che sta succedendo? Come potrà lavare una tale macchia che segnerà il nostro futuro?
Alle donne tocca il compito principale di dar da mangiare ai propri figli, di curare i feriti, che gli ospedali non sono più in grado di accogliere, abbracciare per l’ultima volta i corpi di genitori e figli che non potranno nemmeno avere una degna sepoltura.
Sono proprio le immagini delle donne che mi colpiscono profondamente. Quelle donne che, anche loro, hanno sempre lottato per liberare il proprio popolo dall’occupazione israeliana. Ma guardandole pensavo alla loro storia, a quando frequentavo quei luoghi. Una delle volte in cui sono stata a Gaza è subito dopo gli accordi di Oslo. Avevo trovato un popolo in festa, pieno di speranza, che purtroppo si sarebbe poi dimostrata vana. Negli anni in cui ho cominciato a frequentare la Palestina, i palestinesi rappresentavano l’élite culturale del Medioriente, le donne erano libere – almeno nei limiti concessi da un sistema patriarcale –, decise, in prima fila nelle lotte, anche insieme alle donne israeliane. Ricordate le Donne in nero? Era una lotta partita proprio dalle donne israeliane.
I decenni di occupazione, il degrado delle condizioni di vita, il fallimento degli accordi che avrebbero dovuto creare due Stati per permettere ai due popoli di vivere uno accanto all’altro sono stati disattesi da Israele – dopo l’assassinio di Rabin – e i palestinesi continuano a essere ostaggio degli israeliani. Decenni di oppressione, di umiliazione hanno portato all’affermarsi di una ideologia che, ipocritamente, demanda ogni soluzione al volere di Dio, ma che sulla terra si affida all’ideologia di Hamas. Non è la prima volta che si commettono massacri in nome di dio, a cominciare dalle crociate. Intendiamoci, nemmeno la società israeliana è immune dalla politica dei suoi governi e anche in Israele avanzano i partiti religiosi degli ultra-ortodossi, che ora fanno parte del governo. È difficile fare compromessi quando la decisione spetta a dio, sia da una parte che dall’altra.
Tuttavia, sembrano ignorare la dimensione ideologica di Hamas anche coloro che difendono i diritti dei palestinesi, femministe comprese. Oggi è difficile rimproverare alle donne di Gaza di aver votato Hamas, di soggiacere ai suoi diktat come quello di coprirsi il volto a volte persino con il niqab e di non ribellarsi a una cultura del martirio. Eppure, noi non dovremmo sottovalutare tutti i pericoli che incombono su quella realtà, e non per una sorta di “neocolonialismo” che deve imporre i propri valori, al contrario l’ho imparato dalle donne algerine che hanno combattuto con i loro corpi – a costo della vita – il terrorismo dei Gruppi islamici armati. Le donne che avevano combattuto – non solo nelle retrovie – la guerra di liberazione dal colonialismo francese, una ventina di anni dopo si erano viste discriminate da un codice della famiglia che introduceva la sharia, in netto contrasto con la Costituzione che sancisce la parità uomo donna, ma stabilisce anche che l’islam è la religione di Stato. Con tutto quello che questo comporta.
Tornando alle donne di Gaza, e non solo della striscia, mi ritorna sempre in mente – anche impropriamente come termine di paragone – l’immagine della “leonessa”, la studentessa del villaggio di Nabih Saleh (Cisgiordania) che aveva schiaffeggiato un soldato perché aveva sparato in testa a suo cugino (29 luglio 2018) e per questo era stata arrestata e condannata a otto mesi di carcere. Quando era stata rilasciata Ahed Tamimi con la sua lunga chioma bionda e riccia al vento era diventata un caso mediatico. La sua storia è raccontata nel libro They called me a lioness: a Palestinian girl fighting for freedom, pubblicato negli Usa. Di nuovo arrestata per “incitamento alla violenza”, poi rilasciata a fine novembre scorso, con un gruppo di palestinesi continua a lottare contro l’occupazione. “Io non voglio vivere con chi mi vuole uccidere o con chi mi odia. È mio diritto muovermi liberamente… non ho problemi con gli ebrei, se sono umani, non se imbracciano un fucile e ammazzano i miei familiari e i miei amici”, sostiene la studentessa. Critica nei confronti dell’Anp, “va cambiata la direzione politica”, Ahed ha le idee molto chiare: “Le donne sono protagoniste delle lotte e secondo me bisogna connettere la lotta per i diritti civili con quella nazionale che è una assoluta priorità”. Questa intervista è contenuta nel libro Palestina Israele, parole di donne a cura di Alessandra Mecozzi e Gabriella Rossetti (Futura editrice). Ma non solo in Cisgiordania, anche a Gaza esistono donne coraggiose che sfidano ogni giorno la sorte per affermare la propria libertà. A marzo è uscito in Italia La ribelle di Gaza la storia di Asma Alghoul scritta insieme allo scrittore franco libanese Sélim Nassib. Il libro era pronto nel 2015, ma difficoltà e traversie varie hanno comportato molti ritardi nella pubblicazione. Tuttavia, la Gaza raccontata da Asma potrebbe essere calata nell’oggi se non fosse per le atrocità commesse dall’esercito israeliano negli ultimi mesi. Asma è nata in un campo profughi di Rafah, però ora vive in Francia con i suoi due figli, anche se non si stacca mai dalla “sua patria”. Giornalista, blogger, attivista, nel suo libro non fa sconti a nessuno: alla violenza degli israeliani, all’oppressione di Hamas, agli errori dell’Anp e Fatah, con maggiore comprensione, mi pare di aver colto, per il Fronte popolare di liberazione della Palestina. La sua vita, i mariti, i figli, gli incontri con personaggi importanti come con il famoso poeta palestinese Mahmud Darwish (scomparso nel 2008) sono un’avventura continua, in contrasto con le immagini di Gaza anche prima dell’inizio di questa guerra. Da queste donne nasce una speranza, che però non è quella dei due Stati per due popoli, ipotesi inattuabile ormai.
Dalle voci di donne raccolte nel libro Palestina Israele già citato – tra cui alcune che ho conosciuto – emergono due aspetti: nessuna palestinese parla più di lottare per uno Stato su un pezzo di Palestina, mentre tra gli attuali movimenti israeliani, a parte una fascia ultra minoritaria della società, nessuno chiede la fine dell’occupazione! È evidente che l’unica soluzione prevedibile è quella di un solo Stato democratico per rispettare israeliani e palestinesi, ipotesi nata all’inizio della lotta di liberazione dei palestinesi e tornata di attualità negli ultimi anni e ora discussa da intellettuali di entrambi i lati. Non è facile nemmeno immaginare questa soluzione finché perdura la guerra, finché ci sono forze in Israele e Palestina che rivendicano per il proprio popolo una terra che si estende dal fiume (Giordano) al mare (Mediterraneo). Paradossalmente questa rivendicazione potrebbe essere realizzata con uno Stato, ma questo presuppone una convivenza che solo uno Stato laico potrebbe garantire. Per ora non solo l’ideologia di Hamas, ma anche la scelta di Israele di essere ufficialmente e in base a una legge do rango costituzionale lo “Stato-nazione degli ebrei” sono compatibili con l’idea di uno Stato binazionale. Che dovrebbe essere basato sulla democrazia che ora non esiste a Gaza ma nemmeno in Israele, sebbene l’Occidente continui a definire Israele come “l’unico Stato democratico della regione”  È lo storico israeliano Shlomo Sand a sostenere che Israele non sia uno Stato democratico:Non lo è nei territori occupati e non lo è neanche dentro le sue frontiere legittime. È uno Stato liberale. Il fatto che io possa insegnare liberamente dimostra che siamo uno Stato liberale. Ma uno Stato democratico è un’altra cosa: è uno Stato che appartiene a tutti i suoi cittadini. Israele dichiara di appartenere a tutti gli ebrei del mondo e molto meno agli arabi suoi cittadini. Ecco: uno Stato così non è democratico» (il Manifesto, 27 marzo 2024).
CREDITI FOTO: MANIFESTAZIONE DONNE PALESTINESI, 25 04 2004, RULA HALAWANI



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