7 ottobre: la data con cui nessuno vuole fare i conti davvero

Per gli uni il tempo si è fermato al 7 ottobre, le vicende di quel giorno vengono dilatate a fagocitare tutto quello che è accaduto prima e a giustificare tutto quello che accadrà dopo. Per gli altri, viceversa, il 7 ottobre quasi non esiste, fagocitato stavolta esso stesso da tutto quello che è accaduto prima e da tutto quello che accadrà dopo.

Cinzia Sciuto

Dal 7 ottobre scorso mi sono ritrovata molto spesso a essere tacciata di essere filoisraeliana in contesti propalestinesi e propalestinese in contesti filoisraeliani. Nel primo caso perché quando mi trovo a confrontarmi con i sostenitori della causa palestinese non posso fare a meno di sollevare il tema del della barbarie che si è abbattuta ciecamente sui civili israeliani quel giorno, una barbarie che neanche i decenni di occupazione, violenze, oppressione possono giustificare, della repressione che il regime autoritario, islamista e misogino di Hamas ha imposto ai palestinesi. Nel secondo perché quando mi trovo a confrontarmi con chi sostiene Israele non posso fare a meno di ricordare che il 7 ottobre non nasce dal nulla, che quei decenni di occupazione, violenze, oppressione che non possono in alcun modo giustificare la carneficina del 7 ottobre non possono neanche essere però cancellati dal 7 ottobre e soprattutto che quella data non può essere usato come una cambiale in bianco per annientare i palestinesi. Mi sono ritrovata a disagio ovunque: fra coloro che ribadiscono a ogni piè sospinto “il diritto di Israele a difendersi” come fra i sostenitori della “Palestina libera dal fiume al mare”. E i motivi di questo disagio alla fine si possono tutti ricondurre al peso che gli uni e gli altri danno al 7 ottobre e alla sensazione che né gli uni e né gli altri vogliano fare davvero i conti con il significato di quanto accaduto quel maledetto sabato di quasi otto mesi fa.
Per gli uni il tempo si è fermato al 7 ottobre, le vicende di quel giorno vengono dilatate a fagocitare tutto quello che è accaduto prima e a giustificare tutto quello che accadrà dopo. Qualunque osservazione sulla enormità della reazione israeliana verrà bloccata con un “sì, ma il 7 ottobre”. Qualunque tentativo di ricordare i decenni di occupazione e di oppressione del popolo palestinese nei territori occupati verrà liquidato con un “sì, ma il 7 ottobre”. La richiesta del procuratore della Corte penale internazionale di incriminare Netanyahu e Gallant insieme ai capi di Hamas viene respinta con sdegno perché non si può “equiparare chi si difende ai terroristi che hanno attaccato il 7 ottobre”.
Per gli altri, viceversa, il 7 ottobre quasi non esiste, fagocitato stavolta esso stesso da tutto quello che è accaduto prima e da tutto quello che accadrà dopo. Ogni domanda sul 7 ottobre viene recepita con fastidio, come un tentativo di distogliere l’attenzione dall’occupazione e dalla guerra. Ogni tentativo di sottolineare la barbarie del 7 ottobre verrà bloccato con un “sì, ma l’occupazione e la guerra”. Ogni cenno alla necessità di fare i conti con il 7 ottobre verrà stigmatizzato come irrispettoso nei confronti delle decine di migliaia di morti e delle centinaia di migliaia di sfollati e affamati.
Eppure, tutti devono fare i conti con questa maledetta data. E i conti che ognuno deve farvi sono diversi. Per gli israeliani (e per i loro sostenitori) è doveroso non nascondersi da dove è arrivato il 7 ottobre e riconoscere il dolore e la rabbia che attraversano intere generazioni di palestinesi, alcune delle quali nate e cresciute in immensi campi profughi o sotto l’occupazione coloniale in Cisgiordania. Per i palestinesi (ma soprattutto per i loro sostenitori che non stanno sotto le bombe) è doveroso sforzarsi di capire cosa ha rappresentato il 7 ottobre per gli israeliani (e anche per molti ebrei nel mondo): la sensazione di non essere al sicuro da nessuna parte, l’angoscia per gli ostaggi, il ricordo del trauma della Shoah.
Fare questo non significa “equiparare” un bel nulla, né dimenticare le diverse responsabilità, né tantomeno le diverse forze in campo. Ma se non si fa il minimo sforzo per comprendere le ragioni dell’altro (e qui non si parla delle ragioni geopolitiche, né tantomeno degli interessi di governi e leadership, ma dei sentimenti e dei traumi delle persone), le speranze che questo conflitto possa trovare una qualche soluzione che non lasci il fuoco covare sotto la cenere sono vane.
Non ci si può aspettare nulla di tutto questo dalle attuali leadership di Israele e di Hamas, tragicamente accomunate dal desiderio del completo annientamento dell’altro. Le speranze le possiamo riporre soltanto nei popoli, nella società civile israeliana, negli ebrei fuori da Israele che non accettano di essere arruolati nell’ideologia messianica della Terra promessa. E soprattutto nelle iniziative congiunte di israeliani e palestinesi che partono dal reciproco riconoscimento, dall’ammissione dei torti commessi, e non solo dal ricordo di quelli subiti.

CREDITI FOTO: ANSA/Laurence Figà-Talamanca; Pro-Palestine Encampment at UCLA, 1 may 2024 EPA/CAROLINE BREHMAN

 



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