Donald Trump è colpevole: un uso politico del diritto?

Il verdetto è unanime per tutti e 34 i capi di imputazione mossi dall’accusa. L’evento - di portata storica, essendo il primo caso di condanna per un ex presidente degli Stati Uniti - rischia di mettere in definitiva crisi la separazione fra diritto e politica e rappresenta un precedente pericoloso per la tenuta della democrazia statunitense. Mentre salgono le preoccupazioni per le reazioni delle frange più esaltate del suo elettorato, si attende se verrà accolto il ricorso in appello di Trump, che gli permetterebbe di continuare la corsa per le elezioni presidenziali a piede libero.

Elisabetta Grande

La notizia, per quanto in parte prevedibile, resta clamorosa: Donald Trump è colpevole. È questo il verdetto della giuria di Manhattan, composta da sette uomini e cinque donne, che dopo sei settimane di dibattimento e solo due giorni di camera di consiglio, giovedì 30 maggio ha consegnato al giudice Merchan un verdetto unanime in relazione a tutti e 34 i capi di imputazione per i quali Alvin Bragg, l’accusa, aveva esercitato l’azione penale. Sarebbe bastato che solo uno dei giurati non fosse stato d’accordo perché il processo terminasse con un nulla di fatto: in tal caso – sebbene non assolto – Trump non sarebbe stato neppure condannato.
L’evento è di portata storica: è infatti il primo caso di accusa e condanna penale di un ex presidente degli Stati Uniti, per di più in corsa elettorale per un nuovo mandato e in vantaggio nei sondaggi sul suo avversario Joe Biden. Sono circostanze particolarissime, che aprono interrogativi inediti e problematiche inesplorate e rischiano di mettere in definitiva crisi quella separazione fra diritto e politica che, dalla modernità in poi, è stata posta a fondamento delle democrazie occidentali.
La giuria era chiamata a deliberare se Trump avesse falsificato 34 documenti con cui aveva pagato il suo ex collaboratore Michael Cohen, apparentemente per servigi legali, in realtà – secondo l’accusa – per coprire un rimborso di 130.000 dollari da questi effettuato a favore della pornostar Stormy Daniels (con la quale Trump avrebbe avuto una relazione sessuale) al fine di eliminare ogni notizia che potesse danneggiarlo nella campagna elettorale del 2016, risultata poi per lui vittoriosa.  A differenza della diffusa ricostruzione dell’accusa come un’ipotesi di semplice “acquisto del silenzio” della pornostar in relazione al loro incontro amoroso, la fattispecie di cui Trump era accusato – e per la quale è stato condannato – era assai più complessa e più difficile da provare per Alvin Bragg. Per poter condannare l’ex presidente per un reato più grave (una felony) e non per un mero misdeamenor (reato bagatellare), occorreva infatti collegare quel pagamento alla pornostar a una finalità ulteriore: voler commettere un secondo reato, consistente nell’accordo volto a interferire con mezzi illeciti nell’elezione presidenziale del 2016. Era questa la scommessa su cui Bragg aveva puntato. E ciò non soltanto perché una tale condanna gli avrebbe consentito di veder applicare a Trump una pena più severa e di etichettarlo con l’infamante marchio di felon. Ma anche perché, sul piano politico, ciò avrebbe avuto un effetto preciso: avrebbe dimostrato che nel 2016 l’ex presidente aveva voluto ingannare i propri elettori, nascondendo loro aspetti importanti della sua personalità, che avrebbero potuto compromettere la sua elezione. Era una scommessa non banale, perché convincere la giuria circa l’esistenza di un elemento soggettivo come il dolo specifico – la finalità cioè per cui le falsificazioni erano state realizzate – non era semplice e Trump avrebbe sempre potuto convincere i giurati che con il pagamento alla pornostar non avesse avuto alcuna intenzione di interferire con le elezioni, ma più semplicemente non avesse voluto far trapelare notizie che gli avrebbero creato imbarazzo (magari con la propria moglie). E tuttavia Alvin Bragg, che col caso Trump aveva messo in gioco la propria carriera di prosecutor e di politico (è noto, infatti, come negli Stati Uniti diventare procuratori costituisce spesso il primo passo di un percorso tutto politico), il 30 maggio 2024 ha vinto la propria scommessa. A un anno di distanza da un’iniziale rinuncia a perseguire l’ex presidente,  dopo una serie di nuove intense indagini egli aveva infatti deciso di esercitare l’azione penale, pur a fronte dei molti che consideravano il caso Trump uno “zombie case”.
La domanda da porsi però a questo punto è: con la promozione dell’azione penale contro Trump si è voluto raggiungere solo un risultato giuridico – la condanna penale, cioè, del colpevole di un reato – o anche un obiettivo politico, ossia la possibile sfiducia nei confronti dell’ex presidente, oggi candidato in pole position alle prossime presidenziali, da parte di un segmento di elettorato che il 5 novembre prossimo altrimenti lo avrebbe votato? È questo il tasto dolente del giudizio che si è concluso giovedì 30 maggio a Manhattan. È l’impressione, cioè, di una forte commistione con il piano politico, laddove non solo il giudice Merchan ha una figlia che oggi lavora per la campagna presidenziale di Biden che lui stesso ha supportato economicamente (sia pure con soli 35 dollari) durante le scorse elezioni contro Trump. In aggiunta, Alvin Bragg nel 2021 è risultato eletto in qualità di candidato per il partito opposto a quello di Trump. Il problematico intreccio fra politica e diritto scaturente dalle elezioni popolari – spesso partitiche – dei prosecutors (e dei giudici) statali statunitensi, che già normalmente (almeno agli occhi di un europeo) appare preoccupante, nel caso di Trump si è presentato ancora più allarmante. A differenza di quel che accade di solito è infatti difficile immaginare che di fronte all’ex presidente la giuria – sola responsabile dell’accertamento dei fatti – potesse davvero ristabilire un principio di terzietà. Nel clima politicamente polarizzato e surriscaldato delle imminenti elezioni in cui Trump si ripresenta come candidato alla presidenza degli Stati Uniti, i 12 giurati erano invero stati tutti selezionati fra i residenti di Manhattan: un contesto geografico in cui la stragrande maggioranza degli elettori si esprime a favore del Partito democratico. Arduo credere che la richiesta del giudice di mettere da parte la propria visione politica abbia davvero potuto essere assecondata da parte di quei 12 che, anche se pro tempore investiti del ruolo decisorio, sono pur sempre rimasti donne e uomini, come tali soggetti a pregiudizi.
È in questo quadro che l’odierna condanna di Trump presenta seri rischi per la tenuta democratica del sistema e ciò non soltanto per le ripercussioni che essa potrà avere sui suoi esaltati fan, ma anche e soprattutto per la parvenza di un diritto al servizio della politica che ne è scaturita. Così mentre Trump – allargando la sua base di finanziatori elettorali – subito dopo il verdetto dei giurati ha raccolto fondi elettorali per la bellezza di 53 milioni da parte di coloro che ritengono che la condanna sia stata di tipo politico; i repubblicani, superando ogni precedente divisione interna e richiamando sarcasticamente l’accusa mossa a Trump, l’hanno definita “un chiaro esempio di interferenza nelle elezioni e un’assoluta presa in giro del principio di legalità” gridando al lawfare, ossia all’uso strumentale del diritto a fini politici.
Se, dunque, la mossa vittoriosa dell’accusa, in luogo di rivelarsi un ostacolo alla vittoria di Trump, dovesse invece dimostrarsi una spinta alla sua riuscita presidenziale, negli Stati Uniti il rischio serissimo è che il diritto diventi davvero un puro strumento di lotta politica. Già oggi Charlie Kirk, il fondatore di Turning Point USA – un gruppo politico conservatore – suggerisce che i prosecutors statali repubblicani dovrebbero subito iniziare delle indagini nei confronti di tutti i politici democratici: “Quanti procuratori locali o statali hanno delle pietre da lanciare? Esercitate l’azione penale nei confronti della sinistra, altrimenti perderete l’America” ha scritto in un post online. Trump, d’altronde, ha già promesso che il suo primo atto da presidente consisterà nello scatenare il dipartimento di giustizia contro i suoi avversari politici.
La campagna elettorale per ora continua e l’11 di luglio il giudice Merchan dovrà stabilire la pena per Trump, potendo scegliere fra un affidamento in prova (probation) e una sanzione detentiva fino a quattro anni di reclusione per ognuno dei 34 capi di condanna. In ogni caso presumibilmente applicherà il principio di assorbimento e non quello del cumulo di pene: assegnerà, cioè, una sola pena per tutte le 34 fattispecie di reato per cui l’ex presidente è stato condannato. Trump ha, però, già annunciato il ricorso in appello – che negli Stati Uniti può vertere solo su errori di diritto e non sul fatto, poiché quest’ultimo resta di esclusiva competenza dei 12 giurati del dibattimento in primo grado.  Se la sua domanda di sospensione della pena verrà accolta, egli potrebbe rimanere a piede libero fino alle elezioni. In caso contrario, e qualora la pena irrogata dal giudice Merchan dovesse essere una sanzione detentiva, si assisterà alla surreale situazione di un candidato presidenziale, in vantaggio sull’avversario, costretto a fare campagna dietro le sbarre. E non è affatto detto che ciò non rappresenti per molti perfino un’ulteriore ragione per votarlo il 5 novembre prossimo venturo!
CREDITI FOTO: Outside Trump Tower post guilty verdict, 31 mag 2024, ANSA-ZUMAPRESS/Andrea Renault



Ti è piaciuto questo articolo?

Per continuare a offrirti contenuti di qualità MicroMega ha bisogno del tuo sostegno: DONA ORA.

Altri articoli di Elisabetta Grande

La Corte Suprema dell’Alabama si è espressa: gli embrioni crioconservati sono da considerarsi persone giuridiche, tanto quanto i bambini già nati.

L'assurda legge contro l'aborto in Texas rischia di diminuire la natalità del paese mettendo le donne in pericolo di salute.

Non solo Trump, le cui accuse a carico oggi ammontano a quattro, ma anche il Presidente Biden, a causa del processo al figlio Hunter, potrebbe rischiare la prossima corsa alle elezioni.

Altri articoli di Mondo

In Palestina le donne continuano a essere al centro della resistenza contro la violenza di Israele e l'oppressione patriarcale di Hamas.

Il documento finale ha ottenuto la condivisione di cinque punti fondamentali su cui si auspica si fonderanno i futuri negoziati di pace.

I macronisti continuano a insistere sul fatto che il Front populaire e il Rassemblement national sono uguali. A cosa condurrà questa pericolosa equivalenza?