Franz Kafka, un secolo dopo: le trappole che ha raccontato ingabbiano ancora tutti noi

Non sono mai riuscito a considerare Franz Kafka come un surrealista o un realista magico e neanche come un interprete letterario dell’esistenzialismo o come un allegorista vuoto. A cent’anni dalla sua morte, forse non dovremmo più chiederci a quale sensibilità o parrocchia associarlo e celebrarlo soltanto come il massimo analista di tutte le trappole che l’umanità ha teso a sé stessa.

Roberto Rosano

Ho letto Il Processo di Franz Kafka due volte, a distanza di una decina d’anni e in due rese differenti: una di Giuseppe Landolfi Petrone e Maria Martorelli (Newton Compton E., 1989), l’altra di Primo Levi (Einaudi, 1983). Perciò i due Prozess sono stati inevitabilmente condizionati da quello che i mistici islamici chiamano l’«io del momento» oltre che dalle diverse traduzioni.  La versione di Levi, che ho letto per seconda, da trentenne, pur essendo nella sostanza molto simile alla precedente, mi è apparsa assai meno paradossale e assai più profetica (Kafka è morto nel ’24): «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, fu arrestato. La cuoca della sua affittacamere, cioè della signora Grubach, che ogni mattino verso le otto gli portava la prima colazione, quel giorno non venne. Era la prima volta che una cosa simile capitava. K. aspettò un poco; col capo appoggiato al guanciale, notò che la vecchietta sua dirimpettaia lo osservava con una curiosità per lei del tutto inconsueta, ma poi, deluso ed affamato ad un tempo, si decise a suonare il campanello. Subito bussarono alla porta, ed entrò un uomo che in quella casa K. non aveva mai visto prima».

Ho provato una curiosa sensazione nel leggere queste parole, una sorta di smarrimento semiotico: questa che sto leggendo è la storia di K. o quella di Primo? È uno stato confusionale perfettamente normale per un lettore di Kafka: è la sorpresa irreale, lo spiazzamento tragicomico, l’assurdo familiare che i dizionari hanno trasformato in un aggettivo di successo. Sono tantissimi i «perseguitati della giustizia», effettivi e presunti, che si sono detti vittime di autorità e procedimenti kafkiani. Ma leggere le parole de Il Processo tradotte da Primo Levi le ha come affrancate da tutte le strumentalizzazioni possibili, le ha deflazionate, e non perché fossero significativamente diverse dalle altre, ma per la persona stessa che le rivolgeva al lettore italiano, facendole apparire assurdamente attendibili e premonitrici della storia a venire. Un bel giorno è possibile «ritrovarsi mutati» in criminali o in creature mostruose per una improvvisa decisione d’apparato, e non per ciò che si è fatto, ma per ciò che si è. Come l’anzidetto K. o il Gregor Samsa de La metamorfosi, chiunque può dire di aver sperimentato lo sconcerto di svegliarsi un bel giorno con la schiena «dura come una corazza», le gambe «sottili da far pietà» davanti alla curiosità del tutto inconsueta di qualcuno: le iraniane senza velo che si sono viste notificare le prime sanzioni, le donne col velo nel day after dell’11 settembre, gli omosessuali rifiutati dalle loro famiglie, i tagiki dopo l’attentato di Mosca, gli ebrei dopo la pubblicazione delle leggi razziali, il bambino di origini senegalesi quando ha sentito per la prima volta la parola «negro» dal bullo della scuola.

Ma tra gli archetipi dell’alienazione, forse, quello che meglio ha segnato la produzione di Kafka è la vicenda raccontata ne Il Castello: un agrimensore di nome K., è intrappolato in un villaggio sovrastato da un opprimente castello signorile, simbolo dell’incomprensibilità della legge e della burocrazia. K. sostiene di essere stato invitato dal conte per svolgere delle attività lavorative che si dimostreranno inservibili e non richieste. Inutilmente cercherà di trovare una comunicazione possibile col potere centrale che lo ha convocato, senza riuscire mai a venirne a capo. La sua vicenda, resa con un “sur”realismo dettagliatissimo, pesa sui polmoni di qualunque lettore pratico del formalismo statale: un dedalo che ogni nuovo governo giura di semplificare introducendo invece ulteriori livelli di complicazione e di sopraffazione.  Lo sanno fin troppo bene i docenti italiani, soprattutto i precari, costretti ogni giorno a cimentarsi con il Gogmagog della burocrazia, le sue gigantomachie e i suoi frustranti grovigli. «Il Castello là in alto, già stranamente scuro, che K. aveva sperato di raggiungere in giornata, si allontanava di nuovo» è una frase che si potrebbe aggiungere in esergo al Decreto Legge n. 36 del 30 aprile 2022, fortemente voluto dal ministro Bianchi, riconfermato da Valditara, che costringerà persino i vincitori di concorso a sborsare, dopo anni di lavoro precario e dopo aver conseguito i 24 cfu pretesi da una precedente «semplificazione», altri 2000 euro alle università pubbliche e private. Inutile chiedersi il motivo, il castello, deus absconditus  dai misteriosi disegni, non risponde di questi cambiamenti, come spiega Olga a K. in un passaggio mirabile: «Il Castello ha molti ingressi. Ora è in voga l’uno, e tutti passano di lì, ora l’altro, e il primo è disertato. Secondo quali regole avvengano questi cambiamenti non s’è ancora potuto scoprire».



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