“Dignità è non dover scegliere fra salute e lavoro”, intervista a Michele Riondino

Un'intervista all’attore e regista di “Palazzina Laf” ambientato all’ILVA di Taranto, sua città natale, in occasione del Milazzo Film Festival a marzo 2024. Con il suo film, tratto da un romanzo di Alessandro Leogrande, Michele Riondino ha voluto esprimere la necessità di entrare nelle fabbriche e fra i lavoratori per raccontarne le vite e le battaglie. Perché del lavoro, compreso quello dell'attore, si parla solo quando è eclatante, mentre la quotidianità del conflitto e delle vertenze, e delle contraddizioni che si affrontano, rimane sempre nell'ombra, insieme alla parola "dignità".

Federica D'Alessio

Michele Riondino, il suo film riporta all’attenzione una realtà del nostro Paese che negli ultimi anni è stata tacitata e mistificata, ovvero il fatto che, anche al sud Italia e non soltanto al nord, per quanta propaganda si possa fare sul bel Paese che vive di turismo, è ancora l’industria, e particolarmente l’industria pesante, a rappresentare il principale “polmone artificiale” economico e lavorativo. Ci troviamo a Milazzo in questo momento, su una baia meravigliosa con di fronte l’incanto delle Eolie. Eppure è innanzitutto la raffineria affacciata su questa stessa insenatura a portare ricchezza e lavoro agli abitanti del luogo, impiegando oltre 1500 persone fra dipendenti e lavoratori di ditte terze. Sappiamo cosa significa l’Ilva per la popolazione di Taranto, con oltre diecimila dipendenti senza parlare dell’indotto. L’industria rappresenta ancora una leva economica, e dunque una presenza nella vita delle persone, di enorme importanza. Cosa può fare il cinema per sollevare una riflessione e invitare a uno sguardo più attento sulle condizioni di queste vite?
È come dice lei; il lavoro operaio in questo Paese ha una importanza capitale, tuttora, però non gliene si dà alcuna. Lo facciamo solo quando è messo in discussione, solo quando quel lavoro crea problemi, per esempio se c’è qualche vertenza che richiama su di sé l’attenzione. Questo è uno dei motivi per cui ho voluto fare un film su una fabbrica e sui suoi lavoratori; perché noi non sappiamo mai quello che succede all’interno delle nostre fabbriche, e lo dico anche da figlio di operai. Ho sempre saputo che mio padre faceva l’operaio, da tutta la vita, ma non ho mai capito che tipo di lavoro facesse realmente all’interno di quella fabbrica: né in che reparti, né di cosa si occupavano quei reparti; e quindi non sapevo davvero che tipo di vita vivesse mio padre all’interno di quell’azienda. Nel film, ho raccontato la storia vera di alcuni lavoratori che hanno vissuto una disgrazia, una tragedia all’interno dell’Ilva; quegli stessi lavoratori non avevano il coraggio di raccontare la loro vita all’interno della fabbrica alle loro famiglie, perciò vivevano una condizione di disagio costante e continuo. Per questo, a mio avviso, l’attenzione che conta è quella da dare prima che le cose succedano; sapere come se la passano gli operai, prima che la GKN chiuda. Dobbiamo capire come se la vivono gli operai, il loro lavoro. Perché poi alla fine, come dice lei, sì il bel Paese, sì il turismo, eccetera, ma non possiamo rinunciare all’industria. Per cui, ci tengo a sottolineare quanto il mio contributo da attivista, non tanto da attore, bensì da attivista, che le vertenze – per esempio quelle relative al processo “Ambiente Svenduto”, ndr – non sono “contro l’ILVA”, non sono “contro l’acciaieria”, né tantomeno “contro i sindacati”; no, sono contro quell‘acciaieria, contro quel sindacato, che avrebbe dovuto e non ha fatto. È una differenza sostanziale, perché se volessimo colpire la dimensione dell’industria in quanto tale, saremmo in maniera molto utopistica, dei sognatori. Io non sono un sognatore, io sono, ripeto, un figlio di operai che conosce quella realtà perché la subisce. E prima ancora di essere un attore, un regista, sono un cittadino che conosce quella storia. E quella storia va raccontata, perché oggi di Taranto e di quella fabbrica lì si parla solo in termini occupazionali; non si parla del fatto che quegli impianti sono posti sotto sequestro, non si parla del fatto che la magistratura ha messo sotto sequestro degli impianti, non si parla del fatto che la politica in quanto potere dello Stato dovrebbe agevolare l’altro potere dello Stato della magistratura, e invece fa i decreti legge per ostacolare il lavoro della magistratura. Non si parla del fatto che i cittadini di Taranto oltre che operai sono anche insegnanti, viticoltori, lavoratori del terziario, del Terzo settore, commercianti, insomma tutte le categorie dei lavoratori –se lo dico a Landini, si arrabbia –hanno tutti il diritto di vivere, lavorare e agire in un ambiente sano. Come dovrebbero agire, vivere e lavorare in un ambiente sano e a norma anche gli operai, che invece muoiono negli impianti posti sotto sequestro. Di recente una sentenza ha condannato alcuni dirigenti per la morte di Alessandro Moricella. Un lavoratore morto nel 2015 in un altoforno che era stato posto sotto sequestro; ma subito dopo il suo incidente, subito dopo la sua morte, con un decreto legge [del governo Renzi, ndr, poi bocciato dalla Consulta] è stata ripristinata per la fabbrica la facoltà d’uso di quello stesso impianto dove era morto.

Raccontare le storie dei lavoratori e delle lavoratrici significa anche raccontare la dignità di queste persone.
Sì, e dignità significa non dover scegliere tra la salute e il lavoro, dignità significa lavorare per vivere e non lavorare per morire; e non lavorare uccidendo qualcun altro, che poi qualcun altro è magari anche tuo figlio, tuo figlio piccolo che può sviluppare malattie particolarmente aggressive se ha stretto contatto con materiali tossici, fumi tossici.

Ha proiettato il suo film alla GKN, qualche tempo fa, una realtà di lotta di grande interesse e tenacia. Che genere di discussione è sorta con i lavoratori?
È stato un momento particolare, perché il mio film è fortemente critico, ancor più che verso il sindacato, proprio verso gli operai. Il mio operaio protagonista [interpretato dallo stesso Riondino, ndr] è parte del problema, perché non si schiera. Non si schiera perché non ha gli strumenti per poterlo fare, non ha il coraggio; evidentemente è il prodotto di un ricatto che nel corso degli anni la classe operaia ha subito, e che ha dato alcuni frutti molto evidenti, in quel disinteresse verso il bene proprio e quindi verso il bene comune. Perciò, nel mio film parlo di un lavoratore, di un operaio che è molto diverso dai lavoratori della GKN. I lavoratori di Taranto, gli operai di Taranto che oggi marciano accanto ai padroni sono molto diversi da quei operai della GKN che si sono chiusi in fabbrica e hanno sequestrato gli impianti per poter far sì che la loro presenza e il loro ruolo pesassero nei tavoli decisionali. Noi a Taranto, abbiamo operai in attesa che il ministro di turno possa regalare qualche briciola.

Quindi, a Taranto non ci sono esperienze che si possano avvicinare alla concezione di lavoro sviluppata da realtà come il comitato di fabbrica della GKN?
Ci sono le realtà associative, ci sono tutti quegli operai, che sono stati i primi 1800 lavoratori messi in cassa integrazione durante la prima amministrazione straordinaria, nel periodo 2012-2013, che si sono schierati contro l’azienda. Quegli operai, fatti subito fuori, oggi fanno parte del mondo associativo. Ecco perché adesso bisognerebbe fare un film all’interno dell’azienda, intendo dire un documentario, adesso: perché all’interno ci sono lavoratori che non possono esprimersi, non possono fare un post sui social, altrimenti vengono licenziati.

Anche gli attori sono lavoratori. Come fare a portare avanti vertenze e lotte, a livello sindacale, che esprimano solidarietà anche con altre categorie di lavoratori?
Il punto di partenza è proprio quello di considerare il lavoro di attore come, appunto, un lavoro. Un lavoro di cui essere contenti, nei casi migliori, perché ce lo siamo scelto, ma questa felicità di fare l’attore non può diventare un ricatto morale per farsi star bene condizioni ingiuste. Anche noi in quanto attori abbiamo le nostre vertenze, esigiamo diritti. Personalmente faccio parte dell’associazione Artisti 7607 con Elio Germano, Valerio Mastandrea, Neri Marcorè e tanti altri, e ci occupiamo proprio dei diritti connessi al nostro lavoro. Portiamo avanti vertenze contro le piattaforme – Netflix ha appena citato l’associazione in tribunale, ndr – e chiediamo al Governo di intercedere affinché le piattaforme rendano pubblici i numeri e le cifre delle loro produzioni, cosa che oggi non avviene. U.N.I.T.A. è un’altra associazione che lotta per diverse vertenze. È un lavoro che facciamo per noi stessi e per la categoria tutta; alcuni di noi sono in prima fila, più che per sé, per la categoria. Siamo lavoratori, noi tutti del cinema e dello spettacolo, che dedicano tempo, tanto tempo della loro vita al lavoro; per questo va riconosciuto, per esempio, e retribuito, il lavoro dei provini; le prove che facciamo devono essere retribuite; e i cosiddetti diritti connessi allo sfruttamento delle opere servono innanzitutto alla categoria, a quei tanti attori che ancora non sono protagonisti di primo piano di un’opera, ma lavorano nei film che vediamo, e devono poter vivere di quel lavoro.

CREDITI FOTO: BiM Distribuzione



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