La Corte Suprema negli USA ha stabilito che il Presidente è sovrano assoluto

La Corte Suprema ha conferito al Presidente degli Stati Uniti l'immunità da ogni responsabilità penale per gli atti commessi nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali essenziali, e l'immunità presuntiva immune per tutti quelli che rientrano nel perimetro esterno delle sue responsabilità presidenziali. È un passo ulteriore e definitivo verso il conferimento di uno status di eccezionale intoccabilità, che ne fa un “re al di sopra della legge”.

Elisabetta Grande

Difficile non essere d’accordo con chi pensa che la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti, che lunedì 1° luglio si è espressa sulla questione dell’immunità presidenziale, sia un passo ulteriore verso il conferimento di un potere così ampio al capo dell’esecutivo da farlo quasi diventare, nelle parole di uno dei tre giudici dissenzienti, Sonia Sotomayor, “un re al di sopra della legge”.

Occorre mettere subito in chiaro quanto il presidente degli Stati Uniti abbia fin da subito goduto di una posizione privilegiata rispetto agli altri poteri dello Stato, nonostante la retorica dei checks and balances (ossia dei pesi e contrappesi) abbia dato l’impressione che egli fosse, al pari degli altri poteri, soggetto a controlli incrociati significativi. Non eletto in via democratica, bensì attraverso un collegio elettorale in cui il combinato del differente peso attribuito al voto dei cittadini americani – unito a un sistema maggioritario secco a circoscrizione unica a livello statale, ispirato al principio del cosiddetto the winner takes it all – rende possibile la vittoria di un candidato che abbia ottenuto meno voti del suo avversario (Trump è riuscito vittorioso con circa 3 milioni di voti in meno rispetto a Hillary Clinton!), il capo dell’esecutivo non trova sostanzialmente divieti o limiti nella Costituzione. L’unico limite esplicito contemplato dall’art. II è il divieto di grazia in caso di impeachment.
Nel tempo, i presidenti hanno spesso sconfinato nelle prerogative altrui e in particolare in quelle di “penna” e di “borsa” del Congresso, appropriandosene tutte le volte che hanno creduto fosse il caso. Gli innumerevoli executive order o l’uso dei fondi stanziati dal Congresso per scopi diversi da quelli da esso indicati (l’ultimo clamoroso caso è stato quello del muro con il Messico, ma è solo il più eclatante) ne sono altrettanti esempi, così come le spese segrete che i presidenti hanno effettuato tutte le volte che lo hanno ritenuto necessario, a cominciare dai miliardi di dollari usati durante la Seconda guerra mondiale per il progetto Manhattan per arrivare a quanto ogni anno viene destinato alla sorveglianza di massa (su cui ci ha edotto Edward Snowden). Né è in grado di limitare gli sconfinamenti di potere del presidente americano la possibilità di un suo impeachment o di un rovesciamento da parte del Congresso di un suo executive order o di una sua dichiarazione di emergenza nazionale, che fossero successivamente bloccati dal veto del presidente stesso. In entrambi i casi la necessità per Costituzione che i due terzi del Senato si esprima contro il presidente è sempre stata la chiave della sua irresponsabilità politica e del suo super potere, giacché bastano 17 piccoli stati – ossia l’8 per cento della popolazione – cui corrispondono 33 seggi al Senato, per impedire che i checks and balances funzionino e che il presidente sia ricondotto all’interno dei binari istituzionali.

Se a ciò si aggiunge il potere unilaterale di guerra che nel tempo il presidente degli Stati Uniti si è auto-attribuito al di fuori di qualsiasi dichiarazione da parte del Congresso, che pure per Costituzione condivide con lui quella prerogativa (si pensi da ultimo ai tanti interventi militari fra cui quelli in Afghanistan, Iraq o Libia), il ritratto di un capo dell’esecutivo di fatto onnipotente appare in tutta la sua evidenza. Anche perché la nomina squisitamente politica dei membri della Suprema Corte, cui l’ultimo periodo storico ci ha abituati, ha – almeno momentaneamente – provocato il crollo dell’ultima possibile barriera, quella giuridica, alla sua effettiva onnipotenza.

È questo il quadro in cui si è espressa la Corte Suprema federale, la quale lunedì 1° luglio – con 6 voti a 3 – ha ritenuto il ruolo di capo dell’esecutivo immune da ogni responsabilità penale per gli atti commessi nell’esercizio dei suoi poteri istituzionali essenziali, e presuntivamente immune per tutti quelli che rientrano nel perimetro esterno delle sue responsabilità presidenziali. È una pronuncia che sembra muovere un passo ulteriore e definitivo verso il conferimento al presidente degli Stati Uniti di uno status di eccezionale intoccabilità, facendone per l’appunto un “re al di sopra della legge”. A testimonianza dell’allarme e sconcerto prodotto dalla decisione della maggioranza stanno le dure parole che chiudono la dissenting opinion della giudice Sotomayor: non, come sempre, “Rispettosamente dissento”, ma “Con paura per la nostra democrazia, dissento”.

Il caso da cui la decisione ha preso spunto è arcinoto e riguarda i famosi fatti del 6 gennaio per i quali Trump è stato accusato di cospirazione volta a frodare gli Stati Uniti, a deprivare i cittadini americani del diritto che venissero contati i voti da loro espressi, nonché a ostruire la procedura ufficiale di voto al Congresso. Di quest’ultimo reato Trump era stato anche imputato per averlo individualmente consumato o tentato. Di fronte alle accuse gli avvocati avevano sollevato la questione dell’immunità di cui secondo loro egli avrebbe dovuto godere, in quanto presidente degli Stati Uniti nel momento in cui i comportamenti contestati erano stati posti in essere. Al netto rigetto della loro richiesta da parte delle corti inferiori, tanto di primo quanto di secondo grado – sulla base del condiviso argomento secondo cui “al di là dell’immunità che lo avrebbe eventualmente potuto proteggere in quanto presidente”, una volta tornato cittadino comune la protezione si sarebbe estinta poiché essere stati presidenti non conferisce “un lasciapassare a vita per rimanere fuori dalla prigione” –  a febbraio di quest’anno faceva seguito la decisione della Corte Suprema di decidere il caso.

La questione dell’immunità penale di un presidente, ancora in carica o meno, non si era mai esplicitamente posta nella storia americana. La decisione odierna tocca il tema della possibilità di perseguire penalmente un presidente non più in carica per atti commessi durante la sua presidenza. La soluzione che i 6 giudici conservatori della Corte individuano si articola sulla base di tre differenti situazioni, rispetto alle quali diversa è la risposta. Il Chief Justice Roberts, che scrive l’opinione per la maggioranza, chiarisce innanzitutto che per gli atti commessi al di fuori del perimetro esterno delle sue responsabilità presidenziali, il presidente è certamente penalmente responsabile. Dall’altra parte dello spettro stanno gli atti sicuramente rientranti nelle sue competenze istituzionali, fra cui il compito di decidere quali indagini deve condurre il suo dipartimento di giustizia (tema caldissimo ovviamente!), che sono coperti da immunità assoluta. In un mondo di mezzo stanno invece quegli atti che rientrano nel perimetro delle sue attività ufficiali, ma non ne sono al cuore: per essi c’è solo una presunzione di immunità, che il procuratore dovrà rovesciare in corte se vorrà ottenere una condanna.

È questa la ragione per la quale la corte di primo grado dovrà ora esaminare uno per uno i comportamenti che rientrano nelle accuse rivolte a Trump per i fatti del 6 gennaio e decidere quali di questi fanno parte del perimetro esterno dei suoi compiti ufficiali e quali no. Si tratta di un’attività che determinerà un notevole allungamento dei tempi del processo, già bloccato per mesi dalla lentezza con cui la Suprema Corte ha espresso la sua opinione (fra i tanti affrontati, il caso dell’immunità è stato deciso per ultimo, nell’ultimo giorno della sessione della SCOTUS), dopo che a dicembre scorso aveva anche rifiutato di accelerare le procedure, rigettando la richiesta in tal senso del procuratore Smith. Si prospettano tempi lunghissimi dunque, che quasi certamente posticiperanno a dopo le elezioni il dibattimento, ciò che consentirà a Trump, se eletto, di archiviare l’accusa o di autoconcedersi la grazia.

La pronuncia della SCOTUS sull’immunità penale di un ex presidente per gli atti compiuti durante la sua presidenza, nonostante affronti ovviamente una questione di portata generalissima e sia destinata perciò a stabilire per il futuro i limiti (o forse l’assenza di limiti) delle attività di qualsiasi presidente statunitense, sembra quindi fortemente legata alla situazione contingente. L’accusa, mossa dal mondo repubblicano all’amministrazione Biden di strumentalizzare il diritto a fini politici (di “weaponizing”, ossia letteralmente di “armare”, il suo dipartimento di giustizia) per attaccare il loro candidato alle prossime presidenziali, pare infatti aver fatto breccia nelle menti dei 6 giudici conservatori della Corte.  Tutti di nomina repubblicana – di cui 5 addirittura giuristi interni alle amministrazioni Reagan e Bush seconda, quando l’ideologia conservatrice perorava l’ampliamento dei poteri presidenziali, soprattutto a fini di sicurezza nazionale a seguito dell’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 – i giudici conservatori della SCOTUS hanno oggi soprattutto tutelato Trump di fronte a una situazione particolarissima e inedita, in cui il piano politico e quello giuridico si sono mescolati come non mai. Una volta svelato, come quei giudici hanno fatto nella loro pronuncia, l’indissolubile legame fra il presidente e il dipartimento di giustizia, è apparso infatti loro ovvio che se l’Attorney General, Merrick Garland, ha aspettato 20 mesi prima di nominare un procuratore speciale per effettuare le indagini contro Trump, ciò è stato determinato da un calcolo politico di Joe Biden e del suo partito democratico.

Al possibile uso politico del diritto da parte dell’amministrazione Biden, i giudici della Corte hanno dunque risposto con una decisione che appare altrettanto politicamente motivata. È questo il diabolico circolo vizioso da cui la democrazia costituzionale più antica del mondo non sembra riuscire a liberarsi: un circolo vizioso che oggi ha condotto all’incoronazione di un presidente degli Stati Uniti legibus solutus, o quasi.

CREDITI FOTO: © Taidgh Barron/ZUMA Press Wire via ANSA



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