L’autonomia differenziata è cominciata attaccando l’unità dei lavoratori. Da noi passa anche la riscossa.

Il percorso che ha portato alla vittoria eversiva ottenuta dal padronato con il DDL Calderoli e l’autonomia differenziata è molto lungo, e si incontra con il progressivo svuotamento delle istanze collettive a favore di un sistema privatistico, di mortificazione salariale e della condizione del lavoro. Lo testimonia il lungo percorso di manomissione di uno dei pilastri dell'unità del paese: il Contratto nazionale di Lavoro. Pubblichiamo la lettera ricevuta dal sindacalista Sergio Bellavita.

Sergio Bellavita

Lo sventolio di bandiere indipendentiste da parte dei comprensibilmente entusiasti deputati leghisti di Montecitorio rende bene, più della lettura del testo, la portata politica e sociale dell’approvazione dell’autonomia differenziata.
Siamo di fronte ad una indubbia sconfitta per una parte della società: un passaggio storico che sancisce la vittoria di coloro che considerano l’uguaglianza, la solidarietà, il diritto e spesso persino il progresso, veri e propri impedimenti al libero dispiegarsi di una società fondata sulla competizione totale, sul darwinismo sociale. Un tempo l’avremmo definita una vittoria della reazione calata come una scure nel silenzio agghiacciante della più dura passività sociale di sempre. Sebbene il percorso per l’implementazione concreta dell’autonomia differenziata appaia complicato, il disegno eversivo del rovesciamento delle fondamenta della Costituzione nata dalla resistenza antifascista è compiuto.
Tuttavia è bene rilevare che l’autonomia differenziata, sebbene rischi di essere destinata a fare da volano alla disgregazione del paese, rappresenta essenzialmente solo l’epilogo formale di processi politici e socio-economici di lunga durata. Sul piano politico la legislazione che ha modificato il titolo V della Costituzione nel 2001, fortemente voluta dal centrosinistra e con il giudizio positivo della Cgil, ha nei fatti anticipato e alimentato le spinte alla disgregazione del Paese.

Inoltre, il combinato disposto delle politiche di austerità, di riduzione dei margini per le politiche sociali e la globalizzazione neoliberista hanno generato e alimentato costantemente la spinta al darwinismo sociale, alla cosiddetta economia di prossimità, ovvero la rottura profonda di ogni legame di solidarietà, cittadinanza, uguaglianza dei cittadini davanti allo Stato.

Sul piano sociale, in perfetta simbiosi con quello politico, si consumava il progressivo svuotamento delle istanze collettive a favore di un sistema privatistico, di mortificazione salariale e della condizione del lavoro. Lo testimonia il lungo percorso di manomissione di uno dei pilastri dell’unità del paese, il Contratto nazionale di Lavoro. Nel recente passato, dopo una strenua difesa da parte della Fiom del modello contrattuale che assegnava al contratto nazionale un ruolo unificante inderogabile in materia di normative sulle condizioni di lavoro e sui salari da Trento a Trapani, Cgil Cisl Uil e Confindustria sottoscrivevano diversi accordi interconfederali, ultimo in ordine di tempo il testo unico del 2014, riscrivendo le regole contrattuali e sancendo, per la prima volta nella storia repubblicana, la derogabilità alle norme stabilite dal contratto stesso. Quando un diritto è derogabile, cioè si può in tutto o in parte disattendere, cessa evidentemente di essere un diritto.
Nasce così la contrattazione di prossimità, ovvero subordinata alla condizione della singola impresa o di un’area territoriale, del singolo reparto, persino del singolo lavoratore. Con la contrattazione di prossimità si possono flessibilizzare salari, orari e condizioni di lavoro, adattarle ai dettami dell’impresa.
Ciò che resta del CCNL è, al pari della sanità regionalizzata, una parcellizzazione e mortificazione di salari e tutele tra nord e sud, piccole imprese e grandi imprese, territori abbienti e aree disagiate.

È il rovesciamento della ragione sociale dell’iniziativa sindacale in quanto si subordinano così i bisogni alle compatibilità date e alla salvaguardia dei profitti. Non è un caso che l’Italia sia fanalino di coda per i livelli salariali nei paesi OCSE. Non è un caso che la profonda rottura dell’unità del mondo del lavoro, forte di circa 18 milioni di addetti, abbia determinato in una vastissima parte del paese rassegnazione, disillusione e indotto al perseguimento di interessi esclusivamente individuali.
Parimenti la costruzione del tanto declamato Welfare contrattuale ( sanità integrativa e previdenza complementare) ha regalato miliardi di euro alla sanità privata ed alla speculazione alimentando ulteriormente la frammentazione della condizione del lavoro e la crisi del modello sociale.
Troppo spesso la questione politica e quella sociale vengono tenute colpevolmente distinte, mentre esse appaiono intimamente legate e sono alla base dell’affermazione dell’estrema destra in Italia e in Europa.

Le conseguenze di questa rottura dell’unità nazionale sul terreno sociale sono destinate, se il modello dovesse proseguire indisturbato, a produrre ulteriori crescenti diseguaglianze nell’accesso ai servizi. Determineranno inoltre una poderosa spinta a salari differenziati, incrementeranno l’emigrazione interna, soprattutto sanitaria, con il rischio che alcune regioni comincino a rendere difficoltoso o persino a impedire il trasferimento di residenza anche dei nativi oltreché dei migranti (ahinoi). D’altronde se le Regioni virtuose vogliono continuare ad esserlo è facile ipotizzare che cercheranno in ogni modo di garantire prima di tutto i corregionali!

Difficile immaginare che questo ritorno al passato, perché di questo si tratta in qualche modo, possa produrre un conflitto sociale, né su base solidaristica né su base territoriale. La progressiva divergenza di interessi alimenterà inevitabilmente divisioni e conflitti non la solidarietà interregionale.

Il sud e i suoi abitanti saranno quelli che ancora una volta pagheranno il prezzo più alto sull’altare di un paese sempre più saldamente nordcentrico. Tuttavia nel dramma della controriforma il sud, obtorto collo, può tentare di risollevarsi, di rompere il vizio antico e nefasto di una subordinazione culturale che spinge alla perenne e vana attesa di politiche statali ad hoc. Occorre puntare su percorsi di partecipazione, di inclusione di vecchi e nuovi bisogni, di apertura di una conflittualità difficile ma indispensabile.

L’autonomia differenziata va combattuta sul terreno politico e sociale per riconquistare il diritto alla sanità pubblica e di qualità, alla formazione scolastica, al lavoro dignitoso e retribuito, alla difesa del territorio dallo scempio di abusivismo e degrado. Combattendo infine la corruzione, male endemico italiano, ma che nel nostro sud si combina al governo della malavita organizzata in un mix letale. Sfida complessa, sfida necessaria.

CREDITI FOTO: ANSA/RICCARDO ANTIMIANI (Manifestazione 18 giugno 2024)



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