“L’età fragile”: il passato che ritorna e la volontà di riscatto

In “L’età fragile” di Donatella Di Pietrantonio, edito da Einaudi e finalista al premio Strega, si parla della morte più innaturale: l’omicidio. Sono pagine sull’esistenza dura di chi è rimasto in paese, e sulla vita difficile di chi è andato via. Pagine dove la complessità dei rapporti umani è raccontata con meticolosità. “L’età fragile” non è un momento dell’esistenza, ma l’esistenza stessa, di tutti, intrisa di solitudine e sofferenza.

Angelo Cannatà

Non sempre le citazioni in esergo dicono la natura di un libro. A volte accennano. Altre alludono. Talora sembrano fuori posto. La frase messa in esergo a L’età fragile, Einaudi, dice molto invece del romanzo di Donatella Di Pietrantonio finalista del Premio Strega 2024. La citazione è tratta da “Una morte dolcissima” di Simone De Beauvoir: “Non esiste una morte naturale: di ciò che avviene all’uomo, nulla è mai naturale, poiché la sua presenza mette in questione il mondo.” Così. Ed è come se Di Pietrantonio ci avvertisse: in queste centosettantasei pagine si parla della morte (e della più innaturale: l’omicidio); del rapporto complesso di una figlia con la madre; di quanto le relazioni umane (tutte) mettano in questione il mondo e l’esserci nel mondo di personaggi di una terra bella e difficile: l’Abruzzo.
Ma vediamo lo spunto di cronaca che mette in moto il romanzo, l’impianto narrativo, i personaggi, e lo stile, coi quali l’autrice introduce i suoi temi. “La prima idea di questo romanzo mi ha colta nel 2021, mentre viaggiavo verso Roma”, scrive. S’è ricordata del pluriomicidio avvenuto sulla Maiella. E il ricordo è diventato testo. Che dice anche la vergogna di una comunità offesa dal femminicidio, il legame tra luoghi e persone, l’importanza della memoria. L’incipit è incisivo: “Il disordine che trovo al mattino mi ricorda che non sono più sola” (p.5). È Lucia a parlare, la protagonista e voce narrante del romanzo, che accoglie la figlia Amanda rientrata da Milano taciturna, cambiata, vittima di una violenza mai svelata, che lei intuisce: “ho avuto il presentimento che in quel ritorno ci fosse qualcosa di oscuro e definitivo” (p. 14). “Milano mi ha restituito una figlia spenta” (p. 45) che si chiude in camera per giorni in ostinati silenzi. Un muro. Lucia deve, inoltre, combattere col padre, anziano e severo, che le lascia in eredità il terreno ai piedi del Dente del Lupo. Terreno lordo del sangue di Tania e Virginia; mentre Doralice, la terza ragazza, vive col senso di colpa d’essere sopravvissuta. Mi fermo qui con la trama. Il lettore vedrà gli sviluppi e, soprattutto, come sono tratteggiati con maestria i personaggi: “mia madre si è dovuta ammalare per riposarsi – dice Lucia – . Prima il suo sposo non le ha dato tregua, la voleva uomo in campagna e femmina a casa” (p.21). Pagine sull’esistenza dura di chi è rimasto in paese, e la vita difficile di chi è andato via; pagine dove la complessità dei rapporti umani – l’incomunicabilità – è mostrata con precisione. L’età fragile non è un momento dell’esistenza. È l’esistenza stessa, di tutti, intrisa di solitudine e sofferenza. Di separazione: dai compagni, dalle amiche, dai figli (“Le sono mancata quando aveva bisogno… Ma i più saldi tra i genitori sanno in ogni momento la verità sul da farsi?”, pensa Lucia (p. 47); e ancora: separazione dal marito (Siamo già divisi? “È vero – dice Lucia – ma mentre diamo un nome a ciò che è già successo io mi sento mancare” (p. 98). Descrizioni efficaci – il campeggio, il bosco, la ricerca dell’assassino – con uno stile limpido e un ritmo incalzante che procede con sicurezza tra passato e presente. I figli? “È il destino delle madri, non poterli proteggere, a un certo punto” (p. 95).
Quanto al crimine, il romanzo non indaga tanto sulle ragioni del delitto, ma si sofferma (molto) sulla psicologia dei personaggi, gli effetti del femminicidio nel paese, il ruolo della memoria e il ritorno della comunità a qualcosa che era stato rimosso. Rimosso anche dal padre di Lucia che le intesta il terreno di Dente del Lupo, affinché sia libera (anche) di venderlo. “I posti non hanno colpe. Che colpa ha il Dente del Lupo degli spari di allora… Ormai nessuna molecola di quel sangue è nella terra… Sono passati quasi trent’anni. Tutto è evaporato, trasformato, scomposto. Anche la natura dimentica. Ricresce su tragedie e disastri” (pp. 55-56).
Era un posto sicuro il paese dove vivevano Lucia e l’amica Doralice. Sicuro, fino a quel delitto. Quella notte orribile cambiò tutto e spezzò la loro giovinezza, lasciando il posto al dolore. Lucia, una donna spezzata, avrebbe detto Simone De Beauvoir, per ragioni diverse, certo, da quelle descritte dalla compagna di Sartre nei racconti. Mi piace credere che a certe idee della scrittrice francese abbia pensato Di Pietrantonio quando, nelle battute finali, mostra le proteste contro la speculazione edilizia, su al Dente del Lupo. La denuncia, la lotta, la liberazione con cui si chiude il romanzo (“Il paesaggio è tutelato” non si può costruire, dice Amanda tornata battagliera). Ci sono voluti molti anni perché la comunità rinascesse, superando il trauma collettivo del delitto, ma è quel che accade. Ecco: il romanzo mostra, con un linguaggio asciutto e preciso, il dolore e il riscatto di un microcosmo, ma ha valore universale. Lucia ricorda le parole di un’amica di sua madre: “Mi ha guardata dritta, severa. Che aspettavo, uno che mi sposava e mi manteneva? Come le femmine di una volta? Proprio io che volevo sempre fare la rivoluzione?” (p.142). No, Lucia non venderà il terreno allo speculatore Gerì. La liberazione di cui parlava De Beauvoir passa attraverso tante vie, anche quella della protesta contro le speculazioni e la lotta femminile (di Lucia, Amanda, Doralice) contro le forze brutali della violenza sulla donna e sulla natura. Dicevamo che l’autrice di L’età fragile è finalista del Premio Strega 2024. Qui aggiungo che dal sito di MicroMega le invio – per i temi, i dettagli, la cura, il ritmo serrato della narrazione e lo stile – un in bocca al lupo per la vittoria finale.



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