Lu Xun e l’esotica cultura occidentale vista dalla Cina

Lu Xun fu il padre della letteratura cinese contemporanea. Nelle sue opere si fa spesso beffe della cultura occidentale intesa ad ampio raggio; quella cultura che al tempo stesso amava.

Roberto Rosano

Di Lu Xun l’Occidente conosce ben poco e quel poco si deve alla paziente operosità di Primerose Gigliesi. Dei sedici volumi di saggi – componente principale della sua produzione – sono state pubblicate in italiano solo alcune antologie, insufficienti a dare un’idea, seppure approssimativa, dell’altezza dello scrittore e della sua opera. Eppure Kim Ryang-moo lo ha definito «lo scrittore che occupa il più grande territorio sulla mappa culturale dell’Asia orientale nel ventesimo secolo» insieme al giapponese Natsume Sōseki.

Lu Xun è stato uno dei creatori della letteratura cinese contemporanea, il primo ad aver scritto un racconto in cinese moderno, Diario di un pazzo, attingendo largamente alla lingua parlata, che propone addirittura di latinizzare per diffondere la cultura cinese in tutto il mondo.

Lo scorso anno, la benemerita Quodlibet ha pubblicato La falsa libertà, a cura di Edoarda Masi, una ricchissima scelta di riflessioni su vari argomenti, che però io ho letto con un’occhiatina assai poco disciplinata: partendo cioè dall’indice dei nomi, a fine volume, e selezionando tutto ciò che il padre del cinese moderno ha scritto di noi occidentali e della nostra cultura, una specie di esotismo capovolto. Di Napoleone scrive che la sua storia ha da insegnare ai cinesi che un «un genio non si genera mai da sé, dal profondo bosco o dal deserto (…) ma dalle masse popolari (…). Senza di esse non c’è genio». Tutti a dire «com’è eroico e grandioso: ma non bisogna dimenticare quanti soldati lo seguivano (…) Prima di chiedere la nascita di un genio bisogna volere delle masse capaci di produrlo». Nel capitolo intitolato «i nemici della poesia» annovera anche i nostri Freud e Lombroso, tra coloro che tentano «di scoprire la pazzia nelle grandi opere d’arte o le sezionano col bisturi anatomico per penetrarne freddamente gli inganni, inducendo a conclusioni forzate». Si prende beffe di Bertrand Russell in due momenti: «durante un suo viaggio, Russell ha lodato i cinesi perché sorridevano mentre portavano il palanchino, tuttavia se potessero non sorridere, la Cina non sarebbe più quella che è oggi». E poi: «L’inglese Russell e il francese Rolland si opponevano alla guerra, e tutti li ammiravano; nella realtà è stata una fortuna che non siano stati ascoltati, altrimenti la Germania avrebbe conquistato l’Inghilterra e la Francia dell’uno e dell’altro». Ai nostri illustratori di letteratura per l’infanzia rimprovera di offrire una visione distorta dei costumi nazionali cinesi: «solo quando ho visto dei cinesi disegnati dagli occidentali, ho capito che anch’essi sono molto irriguardosi verso il nostro aspetto. Mi sembra fossero illustrazioni delle Mille e una Notte e delle Favole di Andersen, ora non ricordo bene: portavano in testa un berretto rosso dal pennacchio di piume di pavone, con un codino che ondeggiava per l’aria, ai piedi stivaletti con la suola molto spessa. Ma queste sono cose in cui ci hanno implicati i manchu. Solo gli occhi obliqui, la bocca aperta coi denti in mostra appartenevano al nostro aspetto originario (…) Da quel momento, a poco a poco, ho provato una specie di insoddisfazione per i cinesi che, alla vista di qualcosa di insolito e di una bella donna, piano piano lasciano pendere il mento e spalancano la bocca (…) come se lo spirito avesse perduto qualche sua funzione». Prende per il naso anche Bernard Shaw, che in uno dei suoi paradossi ha scritto che la cosa più negativa al mondo è la lettura poiché chi legge sa vedere solo l’arte del pensiero altrui e non impegna sé stesso. Lo definisce «demagogico» e non a caso «irlandese»: «se da una campagna del Guangdong si cerca un uomo inesperto e lo si fa andare da Shanghai a Pechino (…) e poi gli si domanda che cosa ha ricavato da ciò che ha osservato, ne risulterà ben poco (…) Per osservare, occorre passare prima per la riflessione e la lettura». Di Dante: nel suo Inferno «ci sono gli eretici che io amo. E alcuni spiriti spingono pesanti pietre su per un’erta rupe. È una fatica estrema e, appena allentano le mani, restano schiacciati. Non so come, mi sentivo anch’io stremato. Così mi sono fermato a questo punto e non ho più saputo arrivare al Paradiso». Di Dostoevskij: «nei suoi romanzi pone uomini e donne in circostanze intollerabili. Per provarli, non solo strappa via l’apparente innocenza per conoscere attraverso le torture le colpe che essa nasconde, ma attraverso la tortura conosce anche l’autentica innocenza nascosta sotto le loro colpe. E non li fa morire di una morte rapida, ma procura che vivano a lungo. Avrei spesso posato il libro e smesso di leggere. Un lettore cinese non può comprendere fino in fondo la rassegnazione di Dostoevskij, la sua autentica sottomissione alla perversità. La Cina non ha il Cristo della Russia. Il sovrano che governa sono in riti, non Dio». Interessante è anche ciò che dice del movimento non-violento e di Gandhi: «Una volta anche i coniugi pacifisti di Noulens, imprigionati a Nanchino, fecero due, tre scioperi della fame, senza ottenere il minimo risultato. Non conoscevano lo spirito della prigioni cinesi. Tant’è che un funzionario chiese stupito: ‘se son loro a non mangiare, agli altri che importa?’ Se non avesse scelto il luogo adatto, la messa in scena di Gandhi non avrebbe avuto il minimo successo».

Di Baudelaire, invece, si diverte a stuzzicare il «socialismo da salotto»: «all’inizio della Comune, era impaziente di portare aiuto ma, quando il potere crebbe, gli sembrò che avrebbe nuociuto alla propria vita e si fece reazionario»; e ancora: «salutò la rivoluzione, ma quando questa fu di ostacolo alla sua vita decadente, la prese in odio. Così accade che i rivoluzionari sulla carta, alla vigilia tra i più radicali e accaniti, all’avvicinarsi dei fatti si tolgano la maschera, una maschera inconsapevole». Di Gautier: «avversava profondamente la borghesia, ma era in tutto e per tutto borghese». Socrate per Lu Xun è uno degli emblemi della classe intellettuale, la cui intrinseca debolezza è nella loro incapacità di decidersi: «L’espressione: ‘c’è l’aspetto positivo, ma c’è anche l’aspetto negativo’, che si trova spesso negli scritti cinesi, è la più adatta a descrivere il modo di pensare degli intellettuali. Ritengono sempre che, nelle azioni altrui, non vada né questo né quello. Quando in Russia lo zar uccideva i rivoluzionari, si opponevano (…) quando i rivoluzionari uccisero lo zar e la sua famiglia (…) presero ugualmente ad opporsi. Allora come si doveva fare?».

CREDITI FOTO: Picryl



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