L’universalismo dei diritti contro l’etnonazionalismo

L'unica soluzione a lungo termine non solo per tutte le forme di razzismo ovunque, incluso l'antisemitismo, ma anche per il conflitto palestinese-israeliano sta nella rinuncia all’approccio etnonazionalista e nella rottura della santa trinità di popolo-Stato-territorio.

Nira Yuval Davis

Ho guardato e ascoltato il discorso di Naomi Klein a New York al Peaple Seder[1] e il suo appello agli ebrei americani affinché abbandonino il sionismo e ho provato nostalgia e tristezza. Quando lasciai Israele per la prima volta nel 1969 per recarmi negli Stati Uniti scoprii che c’erano degli ebrei, tra cui un rabbino riformista, che definivano il loro essere ebrei nella loro lotta contro la guerra del Vietnam invece che nel mantenimento di una vita kosher o nel sostegno all’occupazione israeliana: mi sentivo euforica. Fino a quel momento la gamma dell’identità ebraica si estendeva per me fra l’essere un qualche tipo sionista e l’essere un qualche tipo di ebreo ortodosso. Decisi di concentrare la mia tesi di dottorato su diversi gruppi ebraici radicali negli Stati Uniti che andavano oltre questi confini, che erano quelli entro i quali ero cresciuta in Israele (Non ho mai pubblicato la tesi come libro, ma è disponibile presso la British Library].

Sono dunque giunta a definirmi come un’ebrea israeliana della diaspora, una “neo-bundista”[2] che sostiene le persone che rinunciano ai diritti esclusivi su un territorio e di conseguenza non vedono tutti gli altri come una potenziale minaccia, e che ritengono che l’unica soluzione a lungo termine non solo per tutte le forme di razzismo ovunque, incluso l’antisemitismo, ma anche per il conflitto palestinese-israeliano sta nella separazione tra i diritti collettivi e l’etno-nazionalismo esclusivo, nella rottura della santa trinità di popolo-Stato-territorio. O, come dicono gli aborigeni australiani: noi apparteniamo alla terra, non la terra appartiene a noi.

Il mio lavoro di dottorato si è concentrato su gruppi di giovani ebrei che cercavano di lottare contro l’egemonia del sionismo nell’ebraismo americano post-1967, lo stesso obiettivo dei partecipanti al People Seder o dei manifestanti ebrei contro il National Movement of Pro-Israel Americans. Vorrei tanto che avessero avuto successo allora, perché probabilmente alcuni degli orrori di oggi non sarebbero accaduti, e sarebbe stata possibile imboccare la strada per una soluzione basata sulla pace e sulla giustizia sociale, come uno o due Stati democratici tra “il fiume e il mare”. Forse.

Ho dedicato gran parte della mia vita adulta a insegnare e a lottare contro l’antisemitismo e altre forme di razzismo, ma anche contro la confusione tra antisemitismo e critica di Israele e del sionismo (si veda, ad esempio, il mio articolo del 1984 su questo tema in Spare Rib, aggiornato e discusso nel numero 126 di Feminist Review del 2020). Le manifestazioni e le occupazioni in molte università e college americani sono dirette contro gli orrori di ciò che Israele sta facendo a Gaza e ai palestinesi. Solo coloro che sono interessati a sopprimere o distrarre da questo messaggio politico e a spacciare la solidarietà non critica con Israele come l’unica posizione non antisemita possibile potrebbero definire queste manifestazioni antisemite.
Questo non significa che non ci siano comportamenti inaccettabili da parte di alcuni partecipanti a queste manifestazioni – per quanto ne so comunque una piccola minoranza – che si muovono tra atteggiametni antisemiti veri e propri di violenza e/o denuncia di tutti gli ebrei (anche se questi provengono molto più spesso dalla destra che dalla sinistra) e, più comunemente, atteggiamenti inaccettabili del tipo: “Se sei israeliano, o anche ebreo, ti tratterò con sospetto fino a quando non mi dimostrerai che ti opponi a ciò che sta accadendo a Gaza e sostieni i diritti dei palestinesi”, una forma di “sei colpevole fino a quando non dimostri la tua innocenza”, ossia l’opposto di ciò che dovrebbe essere. Purtroppo questa forma di razzializzazione[3] è stata alimentata per molti anni dalla lobby israeliana e negli ultimi anni dalla definizione di antisemitismo dell’International Holocaust Remembrance Alliance, adottata da molte organizzazioni e governi, che definisce Israele come “una collettività ebraica” ed equipara le critiche a Israele e al sionismo all’antisemitismo. Tony Lerman ha scritto in modo splendido e persuasivo su questo tema nel suo libro “Whatever Happened to Antisemitism?”.

Ma c’è anche un altro aspetto che dobbiamo tenere in conto quando esaminiamo lo stato d’animo e gli scontri in queste manifestazioni, ossia l’importante ruolo simbolico che i palestinesi e l’occupazione, l’apartheid, la progressiva distruzione della loro case e la guerra genocida che sta conducendo Israele stanno giocando nella contesa tra il Sud e il Nord globale. Ne ho scritto nel mio articolo uscito su Sociology Journal nel 2023 intitolato “Antisemitism is a form of racism – or is it?” (che Polity Press mi ha chiesto di ampliare e aggiornare in un libro). Mentre l’Olocausto che ha avuto luogo in Europa, come ultima forma di razzismo genocida contro gli ebrei, dopo la Seconda Guerra Mondiale è stato riconosciuto e sono stati offerti e pagati risarcimenti – sia individuali sia collettivi a Israele (autonominatosi rappresentante di tutti gli ebrei, indipendentemente dal fatto che siano sionisti o meno), per gli effetti domicidi e genocidi, per non parlare di quelli dell’ecocidio, del colonialismo e dell’imperialismo nel Sud globale, non sono mai stati offerti risarcimenti e riparazioni (ad eccezione, ovviamente, dei risarcimenti agli ex schiavi schiavi dopo l’abolizione della schiavitù). Il movimento di resistenza su questo da parte dei movimenti del Sud globale e della sinistra globale sta guadagnando forza, come è giusto che sia. Purtroppo, in quanto percepiti come parte dell’Occidente privilegiato, in combinazione con il ruolo di Israele nei Paesi del Medio Oriente, gli ebrei si trovano talvolta nel mezzo di questa contesa, spesso in un gioco a somma zero secondo cui se si riconosce l’antisemitismo si è razzisti anti-Sud del mondo e viceversa.
La via da seguire è quella di non rimanere intrappolati in questo “gioco” corrosivo e distruttivo, ma di creare solidarietà trasversali attraverso i confini e le frontiere con coloro che hanno valori simili, difendere i diritti umani universali e impegnarsi in politiche transnazionali di sostegno. Solo in questo modo le costruzioni di “senso comune” che sono state rafforzate per molti anni a scapito di tutte le persone razzializzate possono avere una leva per essere cambiate e trasformate.
(traduzione dall’inglese a cura della redazione).

CREDITI FOTO: Israel-Hamas War 2024: Palestinian Solidarity Rally: Emory University
April 26, 2024, Atlanta, Georgia, USA (Credit Image: © John Arthur Brown/ZUMA Press Wire)

[1] Rito della liturgia ebraica che si celebra la prima sera di Pasqua (nella Diaspora anche la seconda sera). Tutte le note sono redazionali.

[2] L’Unione generale dei lavoratori ebrei della Lituania, Polonia e Russia, generalmente conosciuto con il nome di Der Bund, è stato un movimento socialista ebraico creato alla fine del XIX secolo nell’Impero russo.

[3] Con il termine “razzializzazione” si indicano quei processi attraverso cui si as­segnano unilateralmente a determinati individui e gruppi identità fisse e presun­te naturali, sulla cui base si pretende di spiegare il loro comportamento, si attri­buisce loro un maggiore o minore valore sociale, si autorizzano trattamenti di preferenza o discriminazione. Il concetto consente di vedere come la razza, che non esiste biologicamente, serva a mantenere rapporti di potere.



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