Ronald Reagan, l’incarnazione del neoliberismo. Un bilancio a vent’anni dalla morte

Due volte presidente degli Stati Uniti, paladino del paradigma anti welfare state, insieme a Margaret Thatcher incarnazione politica del trentennio neoliberista. Lo ricordiamo per capire a che punto è oggi quell’eredità fatta di contrasto ai sindacati e alle tasse, privatizzazione del pubblico, ideologia individualista. Ronald Reagan ha plasmato la cultura civica degli americani, e quindi di tutto il mondo, e la percezione che le persone hanno dello Stato oggi.

Martino Mazzonis

Sono passati 20 anni dalla morte di Ronald Reagan, il presidente-icona del partito repubblicano degli Stati Uniti e la figura che assieme a Margaret Thatcher possiamo considerare l’incarnazione politica del trentennio che si conclude con l’11 settembre 2001. Nel 2004 Reagan era già stato malato di Alzheimer per dieci anni, essendo dunque già uscito di scena dalla vita politica. Eletto per due volte consecutive nel 1980 e nel 1984 con prima nove, e poi diciotto punti percentuali di vantaggio sull’avversario, Reagan aveva tentato la fortuna già nella tornata elettorale precedente quando aveva sfidato da destra il presidente Ford alle primarie, portando la sua sfida fino alla convention. Quella campagna per le primarie è utile da raccontare perché per incalzare Ford proponendo un taglio drastico ai programmi di welfare, Reagan introdusse agli americani la figura della “welfare queen”. Basandosi su una storia vera, quella di Linda Taylor, riuscita a frodare i programmi di welfare per milioni di dollari, Reagan alludeva e creava nell’immaginario popolare l’immagine della donna nera indolente che vive alle spalle dei contribuenti. Reagan non parlava di donne nere, ma l’allusione era chiarissima e funzionava con i bianchi della suburbia che guardavano alle città come a luoghi di violenza e vita alle spalle degli altri – il degrado in effetti era un tratto di alcune metropoli USA dei ’70, New York City in testa, ma le sue cause non risiedevano nella presunta pigrizia dei neri.
Due priorità della filosofia reaganiana erano innegabilmente meno stato/meno tasse e più difesa. I suoi sono gli anni del culmine e della fine della Guerra Fredda e quelli dell’inizio del ridimensionamento della presenza del pubblico nell’economia. Se in un caso c’è la capacità (non sua, ma del sistema) di proporre un modello alternativo a quello sovietico e la crisi profonda dell’economia centralizzata guidata dal partito unico (e corrotto), nell’altro c’è l’imporsi di una filosofia politica che è quella che ancora oggi scontiamo, specie in Europa. Quello è il lascito più importante del presidente ex attore ed ex governatore della California. Reagan impose l’idea che lo stato fosse il problema e non la soluzione (altro slogan efficace), promosse l’idea del rigore fiscale e impiantò in maniera stabile quella politica economica secondo cui abbassando le tasse, anche ai più ricchi, si libereranno risorse da poter investire, facendo così crescere l’economia (la trickle-down economy). I pilastri della politica economica repubblicana di quegli anni prevedevano l’aumento della spesa per la difesa, il pareggio del bilancio federale e il rallentamento della crescita della spesa pubblica e poi il taglio delle tasse sul reddito e sui capital gains, la stretta monetaria per ridurre l’inflazione e un ridimensionamento drastico delle regole. Ancora oggi qualsiasi presidente USA voglia mettere mano al regime fiscale per renderlo meno iniquo o imporre regole, ad esempio sui temi delle emissioni, si scontra con l’egemonia della filosofia economica reaganiana sulle generazioni over 45.
Quella reaganiana è stata una rivoluzione anche per gli Stati Uniti: oggi i repubblicani sono contrari ai grandi piani di investimento infrastrutturale, nonostante il piano più imponente di infrastrutture sia quello del presidente repubblicano Eisenhower, sotto cui venne costruita la rete autostradale d’America. Con Reagan, insomma, si chiude l’era rooseveltiana e si apre quella, appunto, reaganiana, che vede un presidente democratico come Clinton non discostarsi troppo da quanto fatto nei 12 anni repubblicani che lo precedettero  – sotto Clinton si cancella il Glass-Steagal Act del 1932, regolamento per le banche la cui cancellazione contribuisce alla crisi del 2008.
Reagan era innegabilmente anche un grande comunicatore e grazie alla sua capacità e seppe piantare il seme della privatizzazione del possibile, dei sindacati e delle tasse come mali assoluti. Guardando in camera con un’aria rassicurante e complice sapeva toccare le corde giuste. Il suo successo si dovette anche alla stanchezza del pubblico per programmi pubblici che avevano perso la loro capacità di rispondere ai bisogni di una società mutata rispetto agli anni pre e dopoguerra e al contenimento dell’inflazione dopo anni di aumento costante dei prezzi. Nel 1981 precettò i controllori di volo e ne licenziò circa 11mila tra coloro che si rifiutarono di obbedire. Dopo di allora la forza e il potere dei sindacati calò in maniera costante fino ad anni recenti.
Se si guarda all’eredità dell’età reaganiana si può senza dubbio segnalare come una serie delle crisi che attraversano gli Stati Uniti contemporanei comincino durante quella presidenza. Il numero di persone che vivono al di sotto della soglia di povertà è passato da 26,1 milioni nel 1979 a 32,7 nel 1988, mentre la ricchezza dell’1% comincia ad aumentare progressivamente proprio in quegli stessi anni. La rivoluzione avvenne anche grazie a una macchina conservatrice che fin dagli anni di Nixon aveva cominciato a costruire un’ideologia, aprire think-tank e giornali e far crescere la propria capacità di penetrazione nel discorso pubblico capaci di chiudere con l’era del New Deal e dei diritti civili.
Per tutte queste ragioni la figura di Reagan è divenuta centrale nell’immaginario americano. Anzi, per meglio dire, è stata costruita e promossa come figura centrale del movimento conservatore USA. Con le vittorie di Clinton, capace di attrarre il voto che gli analisti chiamano dei “Reagan democrats”, la figura del presidente che ha vinto la Guerra Fredda viene idealizzata, trasformata in icona del conservatorismo e di una presunta età dell’oro.
Ma a che punto è quell’eredità oggi? Per certi aspetti questa comincia ad evaporare con la crisi finanziaria del 2008, poi con la percezione delle immani e crescenti disuguaglianze che attraversano la società USA e, infine, con l’intervento massiccio in economia e nella regolamentazione delle vite dei cittadini durante il Covid. La stessa vittoria di Trump può rappresentare la fine del reaganismo, nel senso che per quanto spietato dal punto di vista sociale, quel partito repubblicano manteneva e teneva alle forme del processo democratico e di un’America conservatrice e benpensante un po’ bigotta ma per bene. Con Trump non è più così. Un aspetto di quegli anni e di quella presidenza che spesso dimentichiamo è che accanto al discorso retorico sulla necessità di contenere il deficit – che tradotto significa tagliare i programmi di welfare – mentre la realtà è che negli anni in cui Reagan fu presidente il debito pubblico crebbe in maniera costante mentre il deficit federale crebbe per poi ridursi, pur rimanendo più alto di quando questi assunse la presidenza. La ricetta reaganiana, insomma, ha funzionato per far crescere l’individualismo (o ha accompagnato questa crescita), il Pil, ma ha generato povertà e senza ridurre il debito pubblico.
CREDITI FOTO:
Official portrait photograph of Ronald Reagan, 1981, Michael Evans, Public domain, Wikimedia Commons



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