Siria, le dure proteste dei drusi contro Assad nel sud del Paese

È da quasi un anno che a Suwayda, città nel profondo sud della Siria abitata dalla comunità drusa, si stanno svolgendo ogni giorno le proteste più concitate dalla primavera araba del 2011 contro il regime di Bashar Al-Assad. Da tempo che il governo impoverisce questa regione con piani di sostituzione demografica, per questo sono nate le rivolte dei giovani che rifiutano di arruolarsi nell’esercito nazionale e continuano a resistere per una Siria unita e democratica. Alle porte delle elezioni, la tensione sale e il governo sta rispondendo con un crescete dispiegamento di forze militari.

Giovanna Cavallo

Dal 16 agosto del 2023, quando si sono verificati i primi blocchi stradali nei dintorni della città di Suwayda promossi dai cittadini che non si rassegnano all’ennesima decisione del governo di aumentare il prezzo della benzina eliminando alcuni sussidi statali, le piazze dei villaggi e del centro città sono state attraversate da migliaia di persone. Ogni giorno, per quasi un anno.
Suwayda, dove vivono circa 350mila, è una città incastonata nel Sud della Siria e abitata da dalla comunità drusa, una minoranza religiosa molto poco conosciuta e soprattutto molto oscurata nelle cronache internazionali e giornalistiche nel quadro degli equilibri siriani. Ce lo spiega bene Fadi Alhalabi, un artista vignettista protagonista oggi delle proteste che ha sottolineato come questa minoranza sia stata sempre “isolata e minacciata durante tutto il periodo della famosa primavera araba”. Da Suwayda i giovani sono costretti a partire per sfuggire alla inevitabile coscrizione nell’esercito e per cercare opportunità lavorative, a causa della particolare condizione della città che dal punto di vista economico e produttivo non beneficia di alcun processo di sviluppo per volontà politica di Damasco. “L’attuale regime ha adottato lo stesso approccio del precedente in termini di impoverimento della città nel tentativo di farne un luogo non soggetto a sviluppo. Per questo gli abitanti della provincia hanno cercato di viaggiare, di andare all’estero per cercare lavoro” ancora Fadi Alhalabi, molto attivo dall’inizio di queste proteste, che riassume così la storia di questa provincia tenuta sotto scacco dal regime per mantenerla debole sotto il suo controllo.
Dall’agosto dello scorso anno migliaia di persone ogni giorno si sono riversate in piazza alAsseir – ora ribattezzata piazza alKarama – (in arabo dignità – la piazza ha mutuato il nome dal movimento popolare della dignità molto attivo nella città di Suwayda) per chiedere l’applicazione della risoluzione ONU 2254 che prevede la ricostruzione democratica della Siria e una efficace exit strategy dalla crisi, economica ma anche energetica e idrica che sta stritolando la comunità, oltre a tutto il Paese. I cittadini parlano della città come un “inferno”: denunciano come le autorità governative abbiano assediato economicamente il governatorato bloccando l’elettricità, interrompendo i pozzi, gettandolo in una crisi idrica soffocante e “per spingere le persone a migrare in attuazione di un piano dannoso per favorire un ricambio demografico della regione per interessi geopolitici del quadrante dell’Hawran”. Certamente c’è una logica dietro il boicottaggio di questo territorio, che sia oggetto di contrapposizione di poteri o che sia una deliberata azione ricambio demografico forzato.
La stampa locale descrive questa ondata di proteste come la più imponente contro Assad a Suwayda dalla rivolta del popolo siriano nel 2011. Ed effettivamente ci si trova di fronte a una importante attivazione dal basso della cittadinanza che negli ultimi 10 mesi ha protestato contro il regime, sperando anche di spingere la comunità internazionale a intervenire per tutelare i diritti dei cittadini e delle cittadine siriane. Le piazze di Suwayda stanno unendo tutte le comunità, con varie affiliazioni intellettuali e politiche, donne e uomini, persino sceicchi, chierici e bambini “contro un dittatore che ha distrutto la Siria a danno della sua popolazione”, uniti per mandare un messaggio al mondo intero: “il presidente toglie la sua legittimità solo al popolo”.
Slogan, canti, iniziative pubbliche costanti per circa 10 mesi riflettono l’adesione dei manifestanti nelle loro richieste principali: cambiamento politico come unica via d’uscita dalla crisi, attuazione delle risoluzioni internazionali, liberazione di prigionieri obiettori di coscienza e tutela delle libertà sociali e politiche.
Negli ultimi giorni, con le nuove elezioni dietro l’angolo, si sono registrati momenti di alta tensione nel nord della città quando in risposta al contesto cittadino di mobilitazione permanente l’esercito governativo ha eretto un insediamento militare alle porte della città: un posto di blocco e di controllo nei pressi della rotonda di Al-Anqoud, duramente contestato dalla popolazione che non intende essere assediata dalle autorità. Azioni di boicottaggio delle sedi del partito Baath e rappresaglie militari hanno caratterizzato l’area settentrionale del governatorato con diversi feriti. Gruppi di dimostranti avevano piantato alberi di ulivo nell’area del check point che sono stati prontamente sradicati dall’esercito per far posto all’insediamento militare. La Pace contro la Guerra. L’unica costante in tutto questo scenario è il desiderio degli attivisti dell’opposizione e del movimento pacifico di continuare le loro manifestazioni e attività chiedendo di salvare il paese dalla crisi, attraverso una soluzione politica. Né le barriere, né le misure di sicurezza sono state una soluzione perché i manifestanti li considerano parte del problema. Nelle ultime ore con diversi negoziati, grazie anche agli “sforzi compiuti dai partiti religiosi e civili”, come si apprende dalla stampa locale, la calma è tornata con un accordo tra i militari e i manifestanti che prevede lo spostamento fuori dalle mura della città del sito militare.
Leggere queste proteste ci restituisce la Siria in un’altra prospettiva. Dare voce a questa protesta ci rende più chiaro uno scacchiere di equilibri e interessi che sta mutando il tessuto sociale siriano: sta emergendo una cittadinanza che non si riconosce con i Russi né con i Turchi, tantomeno con gli Hezbollah e neppure con gli Stati Uniti, che non si riconosce da tempo nel regime di Damasco, ma che guarda alla comunità internazionale e alla risoluzione dell’ONU 2254 come unico punto di riferimento per prendere le distanze da tutto ciò che della Siria si è detto e si è fatto e per cercare una soluzione politica e democratica “all’Inferno”.
Si ringrazia Souhayla S. e Hazem S. per la collaborazione nella ricerca.
Proteste nel centro città di Suwayda, Siria.
Foto di: Medhat Abou Reslan



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