Traumi transgenerazionali tra Yerevan, Brema, Istanbul e Gerusalemme

“Sulla strada abbiamo un altro nome” è l’esordio letterario di Laura Cwiertnia, un viaggio a ritroso nel tempo che, partendo da un sobborgo operaio di Brema, ci conduce fino a Gerusalemme, Yerevan e Istanbul. Si distingue per sensibilità e intelligenza nel trattare un tema difficile – sempre presente ma taciuto per larga parte del racconto – come quello del genocidio armeno. Lo fa lontana dal riduzionismo identitario, e libera da quell’ossessione dell’origine geografica così presente nella letteratura contemporanea.

Simone Zoppellaro

L’esordio letterario della giornalista tedesco-armena Laura Cwiertnia è un romanzo destinato a lasciare un segno. Da poco tradotto in italiano dall’editore Mar dei Sargassi, Sulla strada abbiamo un altro nome cresce dentro di noi pagina dopo pagina lento come un albero, un albero i cui frutti sono il corpo e le sue ferite. Questo viaggio a ritroso nel tempo che, partendo da un sobborgo operaio di Brema ci conduce fino a Gerusalemme, a Yerevan e Istanbul, si distingue per sensibilità e intelligenza nel trattare un tema ostico – sempre presente ma taciuto per larga parte del racconto – come quello del genocidio armeno.
Quattro generazioni a confronto e quattro città, descritte senza compiacimenti o orpelli orientaleggianti, si susseguono in un romanzo in cui il protagonista è il silenzio, affrontato in un corpo a corpo che è il motore stesso della narrazione. In parte romanzo di formazione, ma anche e soprattutto un’opera lontana da ogni riduzionismo identitario, libera da quell’ossessione per l’origine (il cui rovescio spesso è il vittimismo) cui non è estranea tanta letteratura di oggi. Come scriveva pochi giorni fa Jhumpa Lahiri sul Guardian: “Comprendo che non vogliamo che le cose risultino false, che siano vere, ma c’è poi il passaggio dall’autenticità all’idea di purezza, e quindi ciò che non è autentico o puro sarebbe in qualche modo corrotto: questa è la zona di pericolo”.
In questa trappola, Cwiertnia non cade. Non mente al lettore e punta diritto al suo obiettivo, quello di una disamina del tema del trauma transgenerazionale, che si accompagna, come scrive Sivan Gaides, giornalista di Haaretz, a un “profondo senso di sradicamento”. Un tema ormai ben noto grazie a studi riferiti alla Shoah e ad altri genocidi, che ci dimostrano come – persino grazie alla trasmissione genetica, secondo alcune ipotesi – il trauma possa giungere alle tre generazioni successive.
Se il tema del silenzio è riscontrabile nelle biografie di sopravvissuti e testimoni degli orrori del Novecento, spicca nel romanzo il tema dei nomi rimossi, riferito sia a antroponimi che a toponimi. Un tema che noi italiani conosciamo se non altro per l’orrida opera di italianizzazione linguistica imposta a sudtirolesi durante il fascismo, che in alcuni casi raggiunse persino le lapidi dei cimiteri. Qui, oltre alle città e villaggi armeni spazzati via dal genocidio del 1915, abbiamo il fenomeno dell’autocensura linguistica e identitaria, che accompagnò nei decenni seguenti i cosiddetti “hidden Armenians”. Un fenomeno assai vasto, come ho constatato di persona nella stessa Istanbul, e di cui molto si discusse in Turchia in seguito a quella straordinaria stagione di solidarietà che seguì l’assassinio del giornalista turco-armeno Hrant Dink nel 2007, prima che il nuovo, terribile giro di vita imposto da Erdogan facesse ripiombare la questione nel silenzio.
Se ormai è imponente la produzione narrativa e cinematografica sul genocidio armeno (trattandosi della Germania, impossibile non segnalare quel film straordinario che è Il padre di Fatih Akin del 2014, fra i migliori in assoluto), il romanzo di Cwiertnia ha il pregio di affrontare due pagine di storia meno note, ma assai significative.
La prima è quella del pogrom di Istanbul del 1955, quando anche armeni ed ebrei furono colpiti, insieme ai greci, primo bersaglio di quelle violenze che produssero morti, stupri, e la distruzione sistematica di abitazioni e negozi, oltre che di cimiteri e chiese. Considerando che il genocidio armeno si protrasse ancora fino al 1923, facile immaginare il terrore che si impadronì degli armeni in quei giorni di settembre.
La seconda, che è in parte conseguenza della prima, è la migrazione di molti armeni di Turchia verso la Germania, all’interno della vicenda più nota dei Gastarbeiter. Una minoranza nella minoranza dunque che, al pari di quella curda, che ha trovato in Germania la possibilità di riscoprire e coltivare un’identità che per lungo tempo, a causa del nazionalismo turco, era stata di forza rimossa.
Ricordo ancora con sorpresa come, chiedendo ad un amico, Diradur Sardaryan, pastore apostolico armeno del Baden-Württemberg, quale fosse l’origine e provenienza della sua comunità, questi iniziasse il suo racconto parlando dei lavoratori turchi arrivati a Stoccarda a partire dal 1961. Una storia nota e famigliare, per noi italo-tedeschi, che abbiamo condiviso lo stesso destino. A appena pochi anni da quel pogrom, molti armeni ne approfittarono per fuggire da una Turchia considerata, non a torto, ancora ostile alle minoranze.
Pagine importanti, raccontate con una penna che non cerca facili ammiccamenti ed è estranea a ogni indulgere sulla violenza. Per la nostra generazione, che ha conosciuto le grandi tragedie del Novecento in primis grazie alle riduzioni hollywoodiane, non è una cosa scontata. Ricordo ancora la prima lettura di Primo Levi, che mi colpì nella pacatezza e nel distacco con cui affrontava, da un punto di vista narrativo, l’esperienza di Auschwitz. Il tutto, sia detto per inciso, a vantaggio della potenza del racconto. Ebbene, Cwiertnia arriva da questa linea ormai minoritaria, lontana da facili effetti ed emozioni, e per questo capace ancora di scavarci dentro – e non si potrebbe immaginare cosa migliore.



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